“Ma i fiori”, di Andrea Girard, è una poesia contemporanea breve, di tre versi, un haiku nelle dimensioni, seppure non nella forma, ma come il “m’illumino d’immenso”, potente. Colta tra le poesie, tutte brevi, della raccolta “sottotraccia“, è tenue, come i colori dei peschi e dei mandorli in primavera, ma è intensa.
In una società che spinge di continuo a misurarsi con standard altrui, la poesia di Girard invita a fermarsi. A guardare i fiori. Che certo ogni anno sono l’espressione migliore di loro stessi, che certo danno il tutto per tutto nelle condizioni in cui si trovano (pensate alle orchidee che rifioriscono su certe finestre, nonostante i nostri freddi), ma non si paragonano, non si misurano, esistono e il loro esistere è un inno.
Questa breve poesia invita a trattenersi ad assaporare la gioia dell’esserci, di aver ricevuto l’esistenza.
Se si potesse rispondere alla poesia direi: certo, no. I fiori non si chiedono se sono migliori. Sono grati di rispondere alla primavera con la loro presenza. Felici della loro miracolosa esistenza testimoniano il potere della vita che inarrestabile. Germinano, germogliano, fioriscono, vivono, vengono impollinati, producono i loro semi, rigerminano, rigermogliano, rivivono, ringraziando per le stagioni.
Qualcuno si potrebbe chiedere lo scopo di una vita così. Nel medioevo qualcuno avrebbe detto: rendere gloria al Creatore. Oggi qualcuno direbbe: deliziare il cuore di chi li vede.
E se non visti? La loro esistenza è preziose ugualmente.
È una grande metafora che parla dell’uomo: come i fiori non si chiedono se sono migliori, perchè non ne hanno bisogno, così è per la vita di ogni essere vivente. Unica. Essere l’espressione migliore di sé stessi. Null’altro vale.
Ma i fiori
Ma i fiori si chiedono,
ogni stagione,
se stavolta son migliori?