- Il testo
- Il commento: un canto, un inno, una poesia
- Il confronto con l’Ulisse Dantesco
- Il diario di bordo di Cristoforo Colombo
Francesco Guccini – Colombo
E’ già stanco di vagabondare sotto un cielo sfibrato
per quel regno affacciato sul mare che dai Mori è insidiato
e di terra ne ha avuta abbastanza, non di vele e di prua,
perché ha trovato una strada di stelle nel cielo dell’anima sua.
Se lo sente, non può più fallire, scoprirà un nuovo mondo;
quell’attesa lo lascia impaurito di toccare già il fondo.
Non gli manca il coraggio o la forza per vivere quella follia
e anche senza equipaggio, anche fosse un miraggio ormai salperà via.
E la Spagna di spada e di croce riconquista Granata,
con chitarre gitane e flamenco fa suonare ogni strada;
Isabella è la grande regina del Guadalquivir
ma come lui è una donna convinta che il mondo non può finir lì.
Ha la mente già tesa all’impresa sull’oceano profondo,
caravelle e una ciurma ha concesso, per quel viaggio tremendo,
per cercare di un mondo lontano ed incerto che non sa se ci sia
ma è già l’alba e sul molo l’abbraccia una raffica di nostalgia.
E naviga, naviga via
verso un mondo impensabile ancora da ogni teoria
e naviga, naviga via,
nel suo cuore la Niña, la Pinta e la Santa Maria.
E’ da un mese che naviga a vuoto quell’Atlantico amaro,
ma continua a puntare l’ignoto con lo sguardo corsaro;
sarà forse un’assurda battaglia ma ignorare non puoi
che l’Assurdo ci sfida per spingerci ad essere fieri di noi.
Quante volte ha sfidato il destino aggrappato ad un legno,
per fortuna che il vino non manca e trasforma la vigliaccheria
di una ciurma ribelle e già stanca, in un’isola di compagnia.
E naviga, naviga via,
sulla prua che s’impenna violenta lasciando una scia,
naviga, naviga via
nel suo cuore la Niña, la Pinta e la Santa Maria.
Non si era sentito mai solo come in quel momento
ma ha imparato dal vivere in mare a non darsi per vinto;
andrà a sbattere in quell’orizzonte, se una terra non c’è,
grida: “Fuori dal ponte compagni dovete fidarvi di me!”
Anche se non accenna a spezzarsi quel tramonto di vetro,
ma li aspettano fame e rimorso se tornassero indietro,
proprio adesso che manca un respiro per giungere alla verità,
a quel mondo che ha forse per faro una fiaccola di libertà.
E naviga, naviga là
come prima di nascere l’anima naviga già,
naviga, naviga ma
quell’oceano è un acquario di sogni e di sabbia
poi si alza un sipario di nebbia
e come un circo illusorio s’illumina l’America.
Dove il sogno dell’oro ha creato
mendicanti di un senso
che galleggiano vacui nel vuoto
affamati d’immenso.
Là babeliche torri di cristallo
già più alte del cielo
fan subire al tuo cuore uno stallo
come a un Icaro in volo
Dove da una prigione a una luna d’amianto
“l’uomo morto cammina”
dove il Giorno del Ringraziamento
il tacchino in cucina
e mentre sciami assordanti d’aerei
circondano di ragnatele
quell’inutile America amara
leva l’ancora e alza le vele.
E naviga, naviga via
più lontano possibile
da quell’assordante bugia
naviga, naviga via
nel suo cuore la Niña, la Pinta e la Santa Maria
Un canto, un inno, una poesia
Ci sono testi di canzoni che sono vera poesia. Inni. Ci sono cantautori che sono veri poeti. Guccini, Battiato, Branduardi, De André… e potremmo lungamente continuare la lista.
Colombo è parte dell’album Ritratti, del 2004, ed è un capolavoro di immedesimazione e contemplazione del viaggio del navigatore genovese. Non è solamente questo però. È una poesia sul coraggio di affrontare il rischio di perseguire ciò in cui si crede, di andare “verso un mondo impensabile ancora da ogni teoria”.
E, cosa notevole, non è solo in questa impresa. Guccini lo sa: la fiducia che la regina Isabella ripone in lui lo sostiene. Diceva Chesterton, ne “L’uomo che fu giovedì“: “Possiamo concedere ai matematici che quattro sia il doppio di due; ma due non è il doppio di uno: due è duemila volte uno.”
Questo coraggio, che in lui è sostenuto da un’amicizia, lo spinge a sostenere a sua volta il coraggio vacillante della sua ciurma fino alla fine.
Lo si sa, la teoria era corretta ma Colombo, come le sue fonti, aveva sbagliato i calcoli. Credeva che l’Asia fosse distante 4500 km, non i reali 20165. Salpato il 3 agosto 1492, toccò terra il 12 ottobre, ma l’equipaggio era già scoraggiato e impaurito, quasi in rivolta e desideroso di tornare indietro. Dal giornale di bordo emerge come prima che cominciassero a scorgere erbe galleggianti e volatili, segno della presenza di terre non lontane, lui avesse dovuto notificare un ammontare diverso di miglia percorse. Lui sa che “ li aspettano fame e rimorso se tornassero indietro proprio adesso che manca un respiro per giungere alla verità.
Un inno a non arrendersi, a non darsi per vinti, “andrà a sbattere in quell’orizzonte, se una terra non c’è, grida: “Fuori dal ponte compagni dovete fidarvi di me!”
Il finale
L’aver trovato terra fu un sogno realizzato per Colombo, ma anche un trionfo tormentato. Non solo perché morì senza aver compreso che quella che aveva scoperto fosse una terra nuova e sconosciuta agli Europei. Ma anche per le conseguenze della sua amministrazione feroce nei confronti degli Indios, come rivelano le fonti. Poi per le invidie e le incomprensioni.
Quella dell’ultima strofa, però, non sembra la delusione di Colombo. Nella strofa finale cambia lo stile, il ritmo, e sembra che a esprimersi non sia più la voce dell’ammiraglio, ma quella di Guccini stesso, critico verso quell’America di grattacieli, “torri di cristallo”, tacchini nel Giorno del Ringraziamento, condannati a morte e aerei da guerra. Al di là delle critiche contro un’America (USA) superficiale, per quanto valide possano essere, il tono si fa più moralista.
Il rapporto con l’Ulisse di Dante Alighieri – Inferno XXVI
Il tema del desiderio di conoscere che non si può fermare ricorda quanto raccontato dall’Ulisse di Dante:
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta, 96
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore; 99
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto. 102
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna. 105
Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi 108
acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta. 111
“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia 114
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente. 117
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”. 120
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti; 123
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino. 126
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ‘l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo. 129
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo, 132
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna. 135
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto. 138
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque, 141
infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso
Il diario di bordo di Cristoforo Colombo
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