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“Lezioni di giardinaggio planetario” di Lorenza Zambon, da cui riporto le frasi che seguono, non è solo un libro per chi ama la natura, ma è uno di quei libri che curano, che salvano. Ci sono libri, infatti, la cui lettura integrale è di ispirazione per la vita, in cui intere pagine motivano a lanciarsi, a ricominciare, diventano metafore di come affrontare la vita, curano l’anima dalle sue ferite.
“Lezioni di giardinaggio planetario” di Lorenza Zambon, è un libro che testimonia il potere salvifico del rapporto tra umanità e natura, sia per chi la ama davvero, sia per chi la ignora o le è indifferente. Ma non una natura incontaminata. Contaminata, talvolta morta, e poi rinata. Non nei parchi inarrivabili, ma negli orti urbani, nei mini balconi, nelle piccolissime terrazze, e perfino verde portatile. Parla di rinascita. Parla di resilienza. E ciò che Lorenza racconta è ciò che lei vive. Prima di de-scriverlo, lo ha scelto per la sua vita. Per questo è credibile. Educare non è una parola, è un’esperienza. Nessuno educa con ciò che dice. Si educa solo con ciò che si fa. Il “chi” si è non si capisce da ciò che “si dice” di essere, ma da come “si vive”. Lorenza parla di erbacce perché ama le erbacce, parla del misticismo dei semi perché ne coglie e ne coltiva la natura mistica. “Lezioni di giardinaggio planetario” di Lorenza Zambon è un libro sulla resilienza, un libro sulla la speranza, un libro per chi ama non solo la natura ma la vita, in tutte le sue forme.
Indice
- Una metafora dell’educazione: non si coltivano i fiori ma il suolo
- Storie di giardinaggio planetario: lezioni di vita
- Giardinaggio fuori dai giardini e botanica urbana abusiva
- Il giardino planetario e il terzo paesaggio
- Nandino e il mais otto file di Antignano
- Libri nel libro: “L’uomo che piantava gli alberi“
Fiori, erbacce, e molto altro
Con questa immagine do inizio alle citazioni di “Lezioni di giardinaggio planetario” di Lorenza Zambon. Immaginiamo così, infatti, come questo dipinto di Alexander Avarin – Passeggiata, il giardino selvatico e fiorito di fiori d’erbacce della “casa degli Alfieri“, in Monferrato, dove vive Lorenza Zambon, con i fiori alti come bimbi e il sottile sentiero che invita a passeggiate contemplative.
Nessuna citazione (che pur potrete leggere di seguito) potrà rendere adeguatamente l’esperienza della lettura o dell’ascolto dell’audiolibro dalla voce della stessa autrice, perché esso stesso è un’esperienza.
Questo accade perché Lorenza non inventa. Lorenza parla di sé, della sua vita, del suo rapporto con i semi, con i fiori, con le erbacce, con la gente che coltiva. Parla della sua Casa degli Alfieri. E anche quando parla di storie di altri, parla di quelle storie che sono diventate sue, che ricorda, rimette nel suo, di cuore.
Una metafora dell’educazione: non si coltivano i fiori ma il suolo
Chi ha avuto esperienze educative sa che gli interventi diretti funzionano sempre poco, che il ragazzo non vuole sentisi dire cosa deve fare e cosa non fare, vuole poter capire da solo. Di ogni tentativo nascosto di manipolarlo si accorge subito. Ogni buon professore sa di essere quotidianamente radiografato dai suoi alunni. Per questo tutto ciò che il docente può fare è creare l’ambiente e offrire le proposte didattiche migliori nelle quali lo studente possa esercitare le sue scelte. Indirizzato, certo, ma magari da una persona che fa esperienza nello stesso modo, non che dice cosa fare. Che fa insieme. Ad ogni modo la frase che segue, quella relativa al giardiniere che coltiva il suolo e non i fiori, mi ha fatto pensare al docente che coltiva l’ambiente di classe:
quand’ero solo uno spettatore lontano e distratto ritenevo i giardinieri persone dall’animo particolarmente poetico delicato, che coltivano il profumo dei fiori ascoltando il canto degli uccelli. Ora che guardo la faccenda più da vicino trovo che il vero giardiniere non è una persona che coltiva fiori. È una persona che coltiva il suolo, vive immerso nella terra, edifica il suo monumento su un cumulo di concime“
Storie di giardinaggio planetario: lezioni di vita
Ecco un elenco di citazioni per stimolarvi a leggere le numerose storie, preziosissime, che Lorenza ha conosciuto e che condivide perché, nella vita, sono proprio da conoscere, se non altro nella sintesi che Lorenza ne fa.
Giardinaggio fuori dai giardini e botanica urbana abusiva
Chi c’è dietro i meravigliosi micro-orti o ai micro-giardini nascosti o abusivi? Quelli che sorgono vicino alla fabbriche dismesse? Io ne ho visto una volta uno, di pomodori, fuori dal portone di una casa abbandona, in una strada poco trafficata, davanti l’ingresso del porto di Catania. La scoperta mi ha lasciato sorpresa e lieta per tutto il giorno. Ma forse l’ho notato solo perché avevo letto il libro di Lorenza, che di questi giardini ci rivela l’origine, la natura e l’esistenza: qualcosa tra il culto della bellezza che salverà il mondo e l’amore per la natura e la purezza. La frase chiave è questa:
Come ci si arriva? Forse passando dal guerriglia gardening. Esistono infatti gruppi più o meno organizzati di persone, delle quali Lorenza parla a lungo, che agiscono aiutando il verde a diffondersi e a lasciare messaggi: vedono un posto disastrato, imbruttito, abbandonato, dismesso e… vi lanciano una manciatina di semi, oppure vi piantano bulbo.
Un’esperienza da fare. Sì per abbellire la città, sì per scrivere dritto sulle righe storte degli uomini, ma non solo. Soprattutto perché andare in giro con dei semi in tasca, cercando il luogo dove meglio seminarli, risveglia lo sguardo.
“Tenere i semi in tasca fa un certo effetto: […] Ricominci a guardare delle cose a cui sei tanto abituata che non le vedi più […] riappaiono, letteralmente, e tu cominci a fare caso da dove distogli subito lo sguardo e dove invece lo lasci volentieri riposare per un po’. Ricominci a chiederti il perché […]: un seme in tasca ti apre gli occhi!”
Il giardino planetario e il terzo paesaggio: un luogo che protegge la vita
Leggete e ascoltate bene la sintesi della scoperta di Gilles Clément, che parla del pianeta terra come di un grande giardino che protegge la vita. Un po’ il messaggio di Greta Thumberg, ma spogliato della disperazione che nella piccola è diventata ossessione, ricco invece di speranza. Tanto più se, dando ascolto a Lorenza, questo giardino lo cura ciascuno di noi e non solo il potere politico.
“Il giardino planetario. E sì, perché la parola giardino vuol dire proprio questo: spazio delimitato, racchiuso, che contiene e protegge la vita.”
“Il giardino planetario è la rappresentazione del pianeta come un giardino. Il sentimento di finitezza ecologica fa apparire i limiti della biosfera come lo spazio concluso di ciò che è vivente”
Seguono due frasi citate dal manifesto di Gilles Clément. Lorenza ne cita molte altre, cogliendo, di fatto, ciò che è essenziale.
“Istruire lo spirito del non fare come si istruisce lo spirito del fare“
“Insegnare a nominare gli esseri“
Le idee di Gilles Clément, il giardiniere francese che ha parlato del terzo paesaggio come sono elencate nel suo manifesto: Il manifesto del terzo paesaggio, tradotto in italia nel 2016.
“Una miriade di frammenti di spazio impigliati nella trama umana. Un insieme che si situa ai margini […] il terzo paesaggio: un insieme di luoghi non considerati, non protetti, eppure anch’essi rifugio della diversità della vita. Lì la natura può fare i suoi giochi. Quelli sono i luoghi della mescolanza planetaria. […]Portate dalla mescolanza planetaria degli uomini. Lì’ La natura può sfuggire al progetto umano almeno per un po’“
Fare, non fare, disfare
Suggerimenti e ispirazioni per “Piccolissimi giardinieri planetari, privi di potere, pieni di potenza”
FARE
Fare non significa sempre aggiungere. Talvolta quando ciò che di brutto abbiamo lasciato in giro impedisce alla natura di fare i suoi giochi “pulire”, quindi togliere significa fare:
“Tengo appositamente in macchina dei sacconi da spazzatura e dei guanti, così quando vedo qualcosa di proprio insopportabile [che mi offende]… di quei sacchi pieni poi qualcuno ne tengo, a scopo dimostrativo, ci metto anche dei cartellini con il luogo e la data della raccolta”
“Questa è una cosa che secondo me si può fare. Scegliere cinque metri di strada, di campo, di spazio fra due capannoni ed eleggerlo proprio giardino. Ogni tanto passare a trovarlo, pulirlo se serve, e intanto guardarlo, vedere come sta”
NON FARE
Segue un fatto che come altri proprio non si riesce a riassumervi, dovete leggerlo direttamente raccontato da lei… citerò solo:
“Non è necessario nessun abbellimento per qualcosa che è già bello di suo. Le cose che esistono hanno valore e possiamo anche continuare ad usarle”.
La coppia di architetti di Bordeaux che non hanno cambiato nulla nella piazza da abbellire mi ha ricordato la filosofia di Erasmo Figini, della Cometa di Como, e una poesia, di Ninfeam, che lo racconto. Chiedo spazio Lorenza, qui, per citare Ninfeam:
“Restaurare è più eroico, dicono,
che demolire per ricominciare.
D’un letamaio, può farsi una fontana
in cui nuotano lievi le ninfee”.
DISFARE
Della coppia che abbatté i garage, che facevano reddito, per riavere il piccolo giardino:
“è passato un altro anno e non ho visto le stagioni girare“
“Arriva il momento che, se uno può, vuol lasciare la sua impronta“
“I padri avevano costruito e lui voleva essere radicale, lui voleva togliere”
“È scattata l’ora del giardino, proprio come scatta l’ora di fare i figli. Quel momento in cui capisci che – è adesso o mai più“.
“Vorrei parlarvi di qualcosa che sì può fare “senza fare”: guardare! Io lo faccio quando cammino sulle colline da noi, cammino cammino e intanto guardo, lontano ma anche molto vicino ai miei piedi e, intanto che vado, in una piccola parte della mia testa “nomino gli esseri” come dice Clément: farfaro, salvia dei prati, viola mammola, achillea, piè di gallo …. Non posso quasi farne a meno e poi non riesco a scacciare la strana sensazione che nominandoli li aiuto a esistere… è assurdo, lo so…. Comunque recentemente ho scoperto che qualcosa di simile si può fare anche in città: ho visto una bellissima mostra a Torino e poi un libro “Giungla sull’asfalto”: mi ha aperto gli occhi, mi ha rivelato l’invisibile…
La storia del mais otto file di Antignano
Questa è la storia di Nandino, il contadino che continuò a coltivare il suo mais antico, mettendo da parte un po’ del raccolto, quando tutti cominciarono a seminare il mais americano, ibrido moderno. Le sue erano pannocchie piccole e buone. L’ibrido, pannocchie larghe il doppio, resistenti, iper-produttive, ma chimiche, che le galline disprezzano e che, soprattutto, producono ma non si riproducono.
“lui continua a modo suo, con il suo seme, con il letame di cavallo nella terra. Semina largo, 90 centimetri invece di 45, così le piante hanno più aria. Toglie l’erba a mano, con la zappa, che è un lavoro da tutti i giorni. Raccoglie le pannocchie ancora con le foglie intorno e aspetta, qualche giorno, che i chicchi assorbano tutto il nutrimento dal tutolo. Poi si fa una festa e si sfogliano, e ancora si aspetta che asciughino bene al sole, che così gli viene quella trasparenza come di vetro. Poi le sgrana e stende i chicchi ancora al sole. E di nuovo aspetta, perché così, a muoverlo con le mani, glie viene anche quel suono… Perché il mais, deve cantare.
“Avanti così, per sessantacinque anni, è così che il mais otto file di Antignano si è salvato, uno dei pochi in Italia, forse l’unico che non ha mai varcato i confini del paese, ed è rimasto identico dall’inizio del ‘900 ad oggi.
Nandino me la mostra, rosso e lucente con il tutolo bianco. Mi fa vedere come seleziona la semente, prendendolo solo dalla parte centrale della pannocchia, dove i chicchi sono perfetti, e come scarta tutte le pannocchie imbastardite.
“Quei grani lì, quell’agricoltura lì, lo hanno sempre sfamato il mondo, qui da noi, in Asia, in Africa, fino a pochissimo tempo fa. Di sicuro sarà lunga e dura, ma con un po’ più di rispetto per la terra che calpestiamo ogni giorno potrebbero sfamarlo ancora il mondo. Ma sfamarlo, veramente!
Libri nel libro: un uomo che amava la natura “L’uomo che piantava gli alberi”
L’uomo che piantava gli alberi (titolo originale: L’homme qui plantait des arbres), la storia di Elzéard Bouffier, l’uomo che prima, durante dopo le guerre piantò centinaia di migliaia di querce, ripopolando una zona morta, oltre le alpi, prima della Provenza, ghianda dopo ghianda, tutto a mano. Una foresta che riportò l’acqua, i salici, i giunchi, un racconto di Jean Giono, pubblicato nel 1953.
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